L’elezione di una giovane imprenditrice donna alla presidenza di Confindustria è un segnale forte – e di speranza – del rilievo che le donne stanno assumendo nel mondo produttivo. Ed è significativo che accada proprio ai vertici della più importante organizzazione di rappresentanza delle imprese, che sono uno dei luoghi di incontro privilegiato tra società e innovazione tecnologica e scientifica. Il rapporto tra donne e scienza è stato a lungo improntato a una serie di luoghi comuni e di stereotipi, che vorrebbero le prime poco portate, oltre che poco interessate, verso la seconda.
Fortunatamente le scelte accademiche e professionali delle donne italiane dimostrano che si tratta di stereotipi infondati.
I dati più recenti sui percorsi universitari degli studenti indicano il crescente successo femminile negli studi scientifici. A livello europeo, le lauree e i dottorati in discipline scientifiche conseguiti da donne rappresentano oltre il 50% del totale. In Italia sono donne oltre sei laureati e dottori di ricerca su dieci in medicina e farmacia, cinque su dieci in biologia, chimica, fisica e agraria e – a sorpresa – oltre quattro su dieci in matematica e informatica. Chi volesse obiettare che le nostre studentesse di scuola superiore sono tra le meno preparate al mondo in matematica e scienze (stando ai più recenti risultati dei test del PISA) dimentica che gli stessi risultati sono stati ottenuti dagli studenti maschi, a dimostrazione che la scarsa preparazione in campo scientifico non è affatto un problema di genere.
Anche a livello professionale, l’occupazione femminile nei settori tecnico-scientifici è ormai equiparabile a quella maschile: nel nostro Paese pesa per il 46% del totale. Si tratta ancora di un valore inferiore alla media europea. In effetti, in Paesi come l’Irlanda, il Portogallo o la Germania per non citare la Scandinavia e l’Europa dell’Est, le donne hanno già raggiunto e superato la parità numerica. Tuttavia, poiché l’occupazione femminile italiana dal 1998 ad oggi ha fatto registrare uno dei tassi di crescita media annua più alti d’Europa – oltre il 7% tra le laureate – è plausibile attendersi un ulteriore aumento dell’impiego delle donne in quelle aree nel prossimo futuro.
Uno dei nodi cruciali resta, invece, la possibilità delle donne di arrivare ad occupare i vertici delle istituzioni scientifiche. Ancor oggi infatti, i risultati raggiunti dalle donne faticano a tradursi in una rappresentanza femminile numerosa e significativa nella ricerca di alto livello e in particolare nelle posizioni di direzione e di responsabilità. L’aumento dell’impiego femminile nei settori tecno-scientifici, in altre parole, tende a rimanere limitato alle posizioni iniziali della gerarchia, con funzioni prevalentemente amministrative e di servizio e pochi riconoscimenti economici.
Lo mettono in luce anche numerosi dati contenuti nel volume Donne e Scienza 2008. L’Italia e il contesto internazionale pubblicato da Observa – Science in Society in collaborazione con l’Ufficio Regionale per la Scienza e la Cultura in Europa dell’UNESCO. Il libro presenta una raccolta di dati e informazioni, provenienti dalle più autorevoli fonti nazionali e internazionali, sul ruolo della donna nella ricerca e sugli orientamenti pubblici verso le questioni di genere nelle scienza.
Osservando la struttura organizzativa delle istituzioni di ricerca, si nota come la presenza femminile tenda a diminuire via via che si sale lungo la gerarchia professionale. Tra i ricercatori italiani, le donne sono il 30% – un dato peraltro in linea alla media europea; in Germania e Olanda, le ricercatrici sono addirittura meno di due su dieci. Tuttavia solo 15% dei professori ordinari sono donne, per non parlare della partecipazione a commissioni decisionali e consigli gestionali, che a tutt’oggi è una prerogativa quasi esclusivamente maschile.
Alle ricercatrici, inoltre, viene spesso riservato un trattamento economico insoddisfacente rispetto alla loro posizione. L’Italia, in questo, è un caso emblematico. Non solo le retribuzioni delle nostre ricercatrici sono tra le più basse d’Europa – solo i Paesi dell’Europa orientale offrono salari più modesti – ma sono di molto inferiori anche a quelle dei colleghi maschi, con una differenza del 33,3% (in Spagna il divario è del 25,8% in Francia del 22,8%, in Germania del 18,2%).
Le ragioni che sottostanno alla persistenza di disuguaglianze di genere nella scienza sono molteplici e in parte sono comuni anche agli altri ambiti professionali. Qualsiasi analisi sulle problematiche del lavoro femminile non può mancare di fare riferimento alla difficoltà delle donne di conciliare la propria carriera con gli impegni familiari e la cura dei figli.
In Italia, a questo si aggiungono anche i limiti intrinseci del nostro sistema scientifico. I deboli investimenti in ricerca (1,1% del Pil, contro il 2,1% della Francia, il 2,5% della Germania e il 3,9% della Svezia) e il numero esiguo di ricercatori (3 ogni mille occupati, rispetto agli 8 della Francia e ai 16 della Finlandia) sono fattori che purtroppo hanno forti ricadute anche sull’occupazione femminile e sulle possibilità di ascesa professionale.
Ma l’aspetto che le donne, affacciandosi al mondo della ricerca, avvertono con sempre più intensità è la preponderanza di un modello professionale tipicamente maschile. Interrogate sulle problematiche di genere nelle istituzioni scientifiche, le ricercatrici sottolineano l’atteggiamento spesso auto-discriminatorio che esse stesse hanno nei confronti del proprio ruolo professionale. Sono molte a ritenere che le donne non siano in grado di raggiungere le posizioni di maggior responsabilità in quanto meno disposte degli uomini a lottare per la propria carriera, anche per non dover adottare comportamenti aggressivi propri dei colleghi maschi.
La promozione della partecipazione femminile a tutti i livelli della carriera scientifica dunque non passa soltanto attraverso un miglioramento degli aspetti organizzativi del lavoro femminile, comunque essenziale. Alle politiche di genere si richiedono anche interventi nei percorsi formativi dei futuri scienziati, affinché incoraggino le giovani ad acquisire maggiore consapevolezza e fiducia nelle proprie abilità e competenze, e un impegno crescente nel superare i modelli tradizionali della carriera scientifica e della suddivisione dei ruoli.
Affinché le poche donne ai vertici delle organizzazioni di ricerca non rimangano casi isolati, il primo indispensabile passo è dunque il rafforzamento di un sistema di conferimento dei ruoli realmente meritocratico, che premi in primo luogo le competenze e i risultati. Sarebbero l’organizzazione e l’efficienza della ricerca nel suo complesso a trarne beneficio.
Articolo tratto da Ora vogliamo la stanza dei bottoni, l’altro volto della ricerca tra difficoltà e successi, di Valeria Arzenton, Tutto Scienze – La Stampa, 28 maggio 2008.