Negli ultimi tempi abbiamo assistito a una proliferazione dei conflitti e delle proteste sulla tecnologia e l’innovazione – dalla scelta dei siti per lo smaltimento di scorie radioattive, agli impianti per la distruzione dei rifiuti fino alla TAV. Numerosi commenti hanno interpretato questi conflitti come un classico esempio di sindrome NIMBY (Not in my Backyard): tutti vorremmo godere dei benefici di una nuova infrastruttura o tecnologia, ma nessuno è disposto ad accollarsene i potenziali disagi sul proprio territorio. Al di là di un eccessivo semplicismo, un problema non trascurabile della diagnosi NIMBY è che non ci lascia via di scampo. Dovunque si pensi di spostare l’impianto o la linea ad alta velocità in questione, lì incontreremo resistenza da parte dei residenti.
Ma come mai, allora, nel mondo e in Europa si costruiscono e si sviluppano quotidianamente impianti, infrastrutture, tecnologie innovative? E perché nessuna protesta è avvenuta, ad esempio, nel territorio francese che è ugualmente interessato dallo stesso progetto TAV?
Una possibile risposta sta nelle iniziative di “valutazione partecipata dell’impatto tecnologico” (Participatory technology assessment, o PTA) che numerose istituzioni politiche locali e nazionali hanno messo in pratica già da diversi anni. In Danimarca, ad esempio, quasi dieci anni fa il Danish Board of Technology – un’istituzione affiliata al Parlamento – organizzò una di queste valutazioni sul tema dell’inquinamento delle falde acquifere a seguito dell’uso di pesticidi e fertilizzanti agricoli. Un panel composto da esperti, cittadini e politici scelse, tra cinque progetti presentati dalle aziende del settore chimico, da associazioni ambientaliste e dalle aziende municipalizzate del settore idrico, il più adatto a risolvere il problema della qualità dell’acqua tenendo conto dei vari punti di vista ed interessi in gioco. Nella più vicina svizzera, un’analoga istituzione – anche in questo caso su incarico del Parlamento – sta già da alcuni anni organizzando incontri e gruppi di discussione tra esperti, cittadini e imprese sulle implicazioni delle nanotecnologie.
Qual è la base di queste iniziative? E’ la constatazione ormai inevitabile che uno dei modi sicuri per far fallire un’innovazione è quello di mettere utilizzatori e cittadini di fronte al ‘fatto tecnologico compiuto’, ovvero ad innovazioni che a quel punto possono essere solo accolte o rifiutate in toto. E di fronte a queste due alternative, nel dubbio su benefici e conseguenze indesiderate, utilizzatori e cittadini sceglieranno più spesso l’opzione del rifiuto e della protesta che non quella dell’accoglimento. E’ stato questo, ad esempio, il caso degli Ogm in Europa. E sono stati simili casi, uniti ad altri elementi di scenario – tra cui spicca il modo in cui gli orientamenti dei cittadini sono cambiati su questi temi: da una passività e deferenza verso gli esperti a una sempre più pressante richiesta di coinvolgimento – hanno spinto esperti e istituzioni politiche di vari Paesi a modificare le proprie strategie sul rapporto tra tecnologia e cittadini. A comprendere che il loro coinvolgimento, e a maggior ragione quello dei residenti in un’area la cui vita sarà cambiata – nel bene o nel male – da una innovazione infrastrutturale non può essere rinviato a una fase terminale o addirittura accessoria del processo di policy ma deve essere invece incorporata sin dall’inizio del processo. I benefici che si ottengono in questo modo sono duplici. Nel metodo, si dimostra ai cittadini che il loro punto di vista è considerato con la dovuta attenzione da chi governa il processo decisionale, disinnescando una delle ragioni che spesso risultano centrali nell’esplosione di simili proteste. Nel merito, come dimostrano gli esempi citati ma anche le proficue interazioni tra utilizzatori e innovatori che tutti ormai celebrano nell’ambito delle tecnologie informatiche (i ben noti programmi open source), un’innovazione basata sin dall’inizio sulla partecipazione e il coinvolgimento degli utilizzatori risulta spesso migliore e più rispondente ai loro stessi bisogni.
L’articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2005 sull’inserto Tuttoscienzetecnologia del quotidiano La Stampa.