Qualche luce, molte ombre, ma soprattutto numerosi spunti su cui riflettere per immaginare possibili strategie per il futuro. E’ questo in sintesi il quadro che emerge dal nuovo Annuario Scienza e Società pubblicato in questi giorni.
Innanzitutto il problema delle risorse umane, da cui nessun possibile sviluppo o rilancio della ricerca e del suo ruolo sociale può prescindere. E’ noto, ormai, il dato quantitativo che ci vede piuttosto deboli, in termini di numero di ricercatori: poco più di tre ogni mille occupati. Se è arduo confrontarsi con il vertice della graduatoria (la Finlandia che ne ha quasi 17), non si può fare a meno di notare che la media UE e il dato della stessa Spagna sono quasi il doppio del nostro.
Meno noto, forse, è che questo divario sia particolarmente profondo nel settore privato. Nel mondo dell’impresa lavorano in Italia circa tre scienziati su dieci; in Svezia e Giappone i ricercatori del settore privato sono quasi il 70%, e poco meno anche nella più vicina Austria.
Un altro dato che caratterizza in negativo le nostre risorse umane è il loro livello di retribuzione. Qui siamo davvero agli ultimi posti: meno dei nostri ricercatori (in rapporto al costo della vita) guadagnano solo quelli di Islanda, Portogallo e Grecia. Siamo anche uno dei Paesi con il personale di ricerca più vecchio: in Irlanda il 70% ha meno di 44 anni, contro il 57% da noi; se guardiamo alla sola università, un quarto del personale docente italiano ha più di sessant’anni (solo in cinque Paesi dell’est europeo il personale di ricerca è più vecchio del nostro).
C’è, in sostanza, un grave problema di reclutamento e rinnovamento delle risorse impegnate in campo scientifico-tecnologico, aggravato da un sistema produttivo poco propenso a investire in questa direzione.
Un modello positivo a cui molti guardano ultimamente è quello della Øresund Science Region tra Svezia e Danimarca, premiata nel 2008 come regione più innovativa d’Europa. La forte integrazione tra pubblico e privato, tra università e aziende danno oggi vita a un consorzio di dodici università impegnate a coordinare e integrare i propri sforzi per elevare la qualità della propria offerta e la capacità di attrarre i talenti migliori, sei parchi scientifico-tecnologici, oltre duemila aziende e cinque piattaforme di attività nei settori dell’IT e telecomunicazioni, logistica, alimentazione, studi sull’ambiente, medicina e biotecnologie. Multinazionali quali Sony Ericsson, Astra Zeneca, Tetra Pak, Novo Nordisk (ma anche numerose piccole e medie imprese ad elevato tasso di innovazione) hanno trovato nell’ Øresund un habitat ideale.
Un altro tema critico è quello delle differenze regionali. Chi cita i dati OCSE-Pisa sulle competenze in matematica o scienze dei nostri studenti, ad esempio, dovrebbe sempre avere cura di aggiungere che la media nazionale maschera una situazione estremamente disomogenea. In sintesi: abbiamo studenti con competenze vicine alla crema dell’Europa e dell’OCSE (come Friuli, Trentino-Alto Adige, Veneto) e purtroppo studenti con competenze tra le più basse del mondo (come in Puglia, Campania e Sicilia). Un divario visibile anche ad altri livelli: circa la metà del personale impiegato in ricerca e sviluppo in Italia è concentrato in tre regioni (Lombardia, Lazio e Piemonte).
Le peculiarità italiane, da questo punto di vista, rendono problematico individuare esempi di riferimento. E’ indubbio tuttavia, che si potrebbe fare di più per innescare processi virtuosi di trasferimento di buone pratiche, anche a livello internazionale. Tanto più che temi come quello delle risorse umane – ma più in generale, il settore delle politiche della ricerca e dell’innovazione – sembrano essere ormai destinati ad essere declinati in chiave europea, più che nazionale. Ed è qui che forse andrebbe concentrato un maggiore impegno da parte delle istituzioni. A fronte di alcune aree di indubbia eccellenza (è il caso ad esempio della fisica, con un impatto delle pubblicazioni italiane superiore del 20% alla media internazionale), i dati sono impietosi nel mostrare con quale difficoltà i ricercatori attivi in Italia accedano alle opportunità di finanziamento offerte su scala europea.
Infine, i rapporti tra scienza e società in senso più ampio. Qui l’impressione è che ci troviamo di fronte a una disponibilità di principio da parte dei cittadini che non sempre trova adeguati strumenti con cui sostanziarsi. Colpisce, ad esempio, che gli italiani esprimano una fiducia nel progresso tecnologico superiore alla media europea e una crescente propensione a dare contributi alla ricerca (attraverso donazioni o scelta del cinque per mille); che accorrano con numeri da record alle sempre più numerose manifestazioni e festival della scienza ma poi assai di rado prendano in mano un libro di tema scientifico; che essi stessi si giudichino, quantomeno con sincerità, tra i meno informati d’Europa sui ambiente e mutamenti del clima. Qui i modelli non mancano: anche Paesi come quelli scandinavi, che devono la loro crescita scientifica e tecnologica soprattutto al settore privato, l’hanno sostenuta con investimenti di base per la cultura e l’istruzione: biblioteche territoriali, diffusione delle competenze informatiche, meritocrazia e competizione nell’accesso alle risorse per istituti e studenti ad ogni livello.
Articolo pubblicato sul Tutto Scienze – La Stampa del 18 febbraio 2009.