Conference Report
Washington DC 31 marzo-1 aprile 2007
Organizzata a Washington DC da un gruppo di studenti di quattro università americane (Arizona State University, George Mason University, George Washington University e Virginia Tech), la graduate conference “Science and technology in society” si poneva il difficile obiettivo di contribuire a colmare una percepita distanza tra gli studi su scienza e tecnologia (STS) e gli studi sulle policies scientifiche e tecnologiche. Una prima questione rilevante che ha caratterizzato lo svolgimento dei lavori ha riguardato la normatività degli studi su scienza e tecnologia e dunque il loro ruolo nei confronti della politica e delle scelte dei decisori. La rilevanza del tema era data dal fatto che negli Stati Uniti gli studi sulla Scienza e la Tecnologia sembrano soffrire di una minore considerazione da parte delle istituzioni rispetto a quanto accade nel contesto europeo.
L’orientamento della conferenza era ben riflesso nella scelta dei keynote speakers: John Marburger, science advisor dell’amministrazione Bush; Sheila Jasanoff, forse la più “policy-oriented” tra gli studiosi di scienza e tecnologia; Massimiano Bucchi, chiamato ad affrontare il tema della partecipazione pubblica nelle decisioni sulla scienza e la tecnologia, oggetto anche di un capitolo da lui scritto per il nuovo Handbook of Science and Technology Studies, il manuale internazionale di riferimento in uscita da MIT Press.
John Marburger è un ex professore di fisica e di ingegneria elettronica che ha ricoperto vari ruoli di consulenza a livello locale, statale e federale. Dopo aver sentito la necessità di sottolineare di essere “l’unico democratico in un’amministrazione altrimenti interamente repubblicana”, ha messo in luce come sia necessario fornire ai decisori politici una consulenza qualificata e “certificata”, che secondo lui può essere garantita dai meccanismi di legittimazione propri della comunità scientifica.
Come prevedibile, il tono dell’intervento di Sheila Jasanoff è stato di tutt’altra natura. Sottolineando come la lealtà nei confronti del metodo scientifico non implichi necessariamente lo svolgimento di un processo democratico, la Jasanoff ha proposto un ruolo di critica normativa per gli studiosi di scienza e tecnologia, ponendoli così in un ruolo centrale nei processi politici.
Massimiano Bucchi ha spostato invece l’attenzione sul ruolo della partecipazione dei non esperti alla definizione dell’agenda e delle priorità della ricerca – sempre più frequente in settori quali la biomedicina – e alle sfide che questo pone in termini di policy.
Nelle sessioni dedicate alle presentazioni da parte degli studenti, una cinquantina di papers sono stati argomentati e discussi in 12 differenti sessioni che spaziavano da issues tematiche come l’ambiente e le donne nella scienza, fino ad altre più generali che indirizzavano la partecipazione pubblica e questioni riguardanti lo spazio e le politiche pubbliche.
Il ruolo politico svolto dalla conoscenza scientifica è stato quindi al centro del dibattito e il richiamo ad un compito attivo degli studiosi di scienza e tecnologia è stato particolarmente presente nei discorsi degli studiosi che vi hanno partecipato. Come è possibile indirizzare i politici e fornire loro degli elementi che rendano veramente democratico il rapporto tra scienza e società? Se da un lato le indicazioni fornite non hanno indicato la presenza di risposte e metodologie “pre-confezionate” capaci di risolvere la questione, dall’altro l’emergere di un dibattito su questi temi è sicuramente importante e decisivo, specialmente in un paese così attivo sul fronte scientifico e tecnologico come gli Stati Uniti. In gioco è quindi la nascita di una nuova forma di conoscenza, capace di fornire alla scienza e ai politici una rinnovata legittimità agli occhi del pubblico. La percezione è che siamo all’inizio di questa avventura e il tono di “chiamata” dell’intervento della Jasanoff lo ha sicuramente confermato. Ciò costituisce sicuramente un elemento positivo, ma l’unica attenzione che ci si sente di suggerire è che alla fiducia cieca in una scienza capace di risolvere i dilemmi dei politici (la scienza per la policy lasswelliana), non si sostituisca la fiducia incondizionata in un’altra scienza, quella riguardante i rapporti tra scienza e società. Questo atteggiamento, più che aprire delle scatole nere di cui volevamo liberarci, ne creerebbe delle nuove, difficili da mettere in discussione proprio perché, in quanto studiosi di scienza e società, non ci accorgeremmo nemmeno di averle create in prima persona. Non abbiamo certamente bisogno di forme di conoscenza che offrano soluzioni certe e pronte ai problemi, ma che il dibattito sia vivo e aperto ai contributi più diversi. La conferenza di Washington è stata sicuramente un primo passo in questa direzione.
Andrea Lorenzet è dottorando di ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale all’Università di Trento.