I progetti di grattacieli proliferano in tutto il mondo – una ricerca citata recentemente su Il Giornale dell’Architettura stimava che ne fossero in costruzione oltre tremila – ma si moltiplicano anche le discussioni sul loro impatto sui paesaggi urbani. Tra i recenti progetti più contestati il Gazprom City di San Pietroburgo, una torre di 396 metri che ha provocato anche le dimissioni di alcuni membri della giuria (tra cui Norman Foster e Kisho Kurokawa) incaricata di scegliere il progetto vincitore. In Olanda a far discutere è soprattutto la cosiddetta ‘Bella di Zuylen’, un edificio di 260 metri progettato a Utrecht per uffici, appartamenti e negozi, fortemente avversato dalla popolazione e più recentemente da alcune tra le stesse istituzioni. A Dublino, forse anche per la notorietà dei committenti – la rock band U2 – solleva polemiche il progetto del primo grattacielo d’Irlanda. Discussioni che spesso riguardano in primo luogo la questione estetica, ma non di rado anche l’impatto sull’ambiente e le tecnologie utilizzate negli edifici.
MB Da dove viene questa attrazione/repulsione per i grattacieli? Questi dibattiti sono paragonabili alle altrettanto frequenti controversie sulle infrastrutture tecnologiche?
FA Credo che per tentare di dare una risposta si debba inevitabilmente tornare alle origini, all’episodio biblico della Torre di Babele: da un lato c’è l’ambizione, il desiderio di avvicinarsi alla divinità, dall’altro il fallimento del progetto che si risolve nella confusione linguistica e nella distruzione dell’ambizioso progetto. Credo che questo spieghi anche molte delle resistenze tuttora diffuse nei confronti di queste costruzioni. D’altra parte oggi l’andare in alto è per molti versi una scelta inevitabile, non ci sono molte altre opzioni.
MB Quindi il grattacielo è una necessità della moderna progettazione urbana?
FA Credo che il discorso da fare sia piuttosto: che cosa c’è sotto la torre? Perché se in certi casi c’è una vera malinconia del costruire, penso ad esempio a Berlino, è perché nessuno ha pensato all’ ‘attacco a terra’ di questi edifici. L’albero che va in alto deve radicarsi profondamente non solo sul piano strutturale, ma anche sul piano culturale e sociale. Che cosa permette all’edificio a torre di vivere nel pieno senso della parola, anziché sopravvivere? Ormai abbiamo ben presente i limiti dello ‘sprawl’ e della relativa frammentazione delle nostre città. Quello che non è risolto è come e perché si vive sotto all’edificio alto, come si struttura la relazione tra il corpo verticale e terra che lo tiene legato al punto d’appoggio; la capacità di questo corpo di radicarsi nel territorio che lo ospita.
MB Mi viene in mente il lavoro di Catherine Ingraham sul rapporto tra lo sviluppo dell’architettura e quello delle nostre idee sulla vita e la biologia: la città come ‘animale’ vivente e non solo come insieme di linee e volumi geometrici. Lo slancio verticale come metafora dell’animale quadrupede che si evolve nell’uomo.
FA Se l’edificio è l’ennesima affermazione in senso verticale di ‘classi sociali’ – intese naturalmente non solo nel senso di ‘più e meno abbienti’ – allora non funziona. Se alla base invece c’è una forte aggregazione sociale e culturale, allora il discorso è diverso. Non è tanto una questione di ‘altezza sì, altezza no’, di cento o di duecento metri. E’ indubbio che l’edificio orizzontale di per sé faciliti maggiormente la socializzazione. L’uomo fa fatica a muoversi verticalmente, ha bisogno di un ausilio tecnico.
MB Pensi a qualche esempio particolare di torre ‘virtuosa’?
FA Sono quelli che si trovano nelle città nate subito ‘dense’ come New York. In quei casi c’è un ground, un cuore che pulsa sotto la torre, che sia commercio, che sia vita sociale o culturale. L’Empire State Building è stato per 150 anni il simbolo di New York. Più che su edifici singoli dovremmo concentrare la nostra attenzione sui processi di densificazione delle nostre città e sui rapporti che si instaurano tra i diversi edifici. Dobbiamo chiederci se una determinata città può diventare verticalizzata, se ci sono le condizioni. Altrimenti la reazione rischia di essere: chi ha il diritto di costruire l’edificio che diventa il riferimento del paesaggio? Una volta c’erano i campanili, che però erano un sistema di misurazione del territorio, un sistema di riferimento per le comunità e un sistema di diffusione delle informazioni.
MB Una delle caratteristiche della modernità però è proprio l’emancipazione dai vincoli di spazio e di tempo comune, anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa e le reti informatiche. Quale ruolo possono avere scienza e tecnologia in questo scenario?
FA Scienza e tecnologia sono indubbiamente fondamentali nel risolvere i problemi tecnici, nel rendere questi edifici sostenibili e compatibili con i nuovi scenari ambientali ed energetici; l’importante è che l’eco-compatibile non sia solo l’ennesima tendenza. In questo senso il discorso va inevitabilmente allargato. Quanto possiamo agire sulla densità urbana attraverso la scienza e la tecnologia, ad esempio organizzando meglio la mobilità degli abitanti? Credo che su simili questioni si giochi davvero il futuro delle nostre città.
Pubblicato il 9 aprile 2008 su Tutto Scienze e Tecnologia de La Stampa. Vedi l’articolo originale.
Flavio Albanese è direttore della rivista Domus
Massimiano Bucchi è professore di Sociologia della Scienza all’Università di Trento