Il recente successo dei ricercatori dell’Università di Kyoto, che hanno ottenuto cellule con caratteristiche analoghe a quelle di staminali embrionali riprogrammando cellule dell’epidermide, offre anche nuovi spunti per ripensare una visione tradizionale dei rapporti tra scienza e società.
Entro tale visione, la società è vista come fonte di resistenza e limiti allo sviluppo della scienza; il rapporto tra scienza e società è considerato come scelta antitetica e gioco a somma zero in cui ogni concessione all’una va necessariamente a detrimento dell’altra – nella migliore delle ipotesi, un pegno da pagare per salvaguardarne da un lato gli obiettivi della scienza, dall’altro istanze e preoccupazioni sociali. Tale concezione concepisce scienza e società come entità discrete, internamente omogenee e tra di loro separate come compartimenti stagni. Ogni permeabilità è considerata un’indebita intromissione dell’una nella sfera di azione dell’altra e viceversa, che richiede una negoziazione tra le parti per ristabilire un idealizzato equilibrio di partenza. Si noti che una tale visione – per cui ogni elemento di natura politica, culturale o religiosa è un freno e un vincolo potenziale alla ricerca – non caratterizza solo i fautori della libertà di ricerca, ma paradossalmente anche coloro che enfatizzano la necessità di vincoli e limiti più stringenti.
Col tempo, questa concezione ha mostrato sempre più chiaramente i suoi limiti e la sua rigidità. I conflitti in materia di tecnoscienza sono proliferati; comitati e commissioni nominati con un criterio di bilanciamento ispirato a questa visione raramente sono riusciti a sciogliere i principali dilemmi decisionali; il rapporto tra scienza e società rischia di assomigliare sempre più a uno ‘scontro di civiltà’.
Il risultato ottenuto dai ricercatori giapponesi si inserisce in una nuova prospettiva aperta sin dal 2004, quando in una seduta del Comitato di Bioetica statunitense, insediato dal Presidente americano Bush, il medico e bioeticista William Hurlbut propose quella che definì “una soluzione tecnologica a un impasse morale”. La proposta consisteva nell’inibizione, prima del trasferimento della cellula somatica nella cellula uovo, di un gene essenziale per lo sviluppo embrionale. In questo modo, secondo Hurlbut, si sarebbe ottenuta un’entità che non sarebbe mai stata in grado di svilupparsi in un essere umano completo, come tale esente dai problemi morali che precludevano la ricerca su cellule staminali embrionali.
Circa un anno dopo fu pubblicato sulla rivista “Nature” il risultato di un esperimento conclusosi con successo in cui si applicava la proposta di Hurlbut. Nei mesi successivi, furono annunciati altri due esperimenti: uno dell’equipe di Robert Lanza, che sosteneva di aver ottenuto cellule staminali embrionali senza distruggere l’embrione (presto ribattezzate ‘staminali etiche’); e uno dello stesso gruppo dell’Università di Tokyo attualmente sotto i riflettori, apparentemente in grado di riportare cellule adulte di topo a uno stadio embrionale forzando l’espressione di geni responsabili dei primissimi stadi di sviluppo.
La risposta che le cellule staminali ‘senza embrioni’ danno ai dilemmi della scienza in una società pluralista è ben diversa da quello di una soluzione conseguita attraverso forme di negoziazione e concertazione. Qui gli aspetti politici, morali o religiosi non subentrano ‘a fatto tecnoscientifico compiuto’ per accettare o – più spesso – respingere o contingentare i risultati della ricerca scientifica: in questo caso sono infatti proprio tali aspetti a ‘commissionare’ alla ricerca un oggetto capace di superarne i dilemmi, un “embrione non suscettibile di divenire individuo” o “cellula staminale etica” che incorpori le preoccupazioni morali di una parte della collettività.
Si possono naturalmente esprimere valutazioni diverso su questi processi. E’ tuttavia dubbio che limitarsi ad ignorarli, coltivando una retorica dei ‘limiti’ o una retorica speculare della libertà della ricerca, entrambe fondate su un’anacronistica visione della scienza e del suo ruolo sociale, possa aiutarci a sbrogliare i complessi nodi del rapporto tra scienza e società, e più in generale quelli delle decisioni che sui temi della tecnoscienza ci attendono.
L’articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2007 sul quotidiano La Stampa.