E’ passato ormai quasi un quarto di secolo da quando la Royal Society lanciò l’allarme con il rapporto Bodmer sul Public Understanding of Science (1985). Il documento metteva in guardia da un potenziale deterioramento nei rapporti tra scienza e opinione pubblica e sosteneva la necessità di incentivare “una migliore comprensione della scienza come fattore significativo di promozione del benessere della nazione, elevando la qualità delle decisioni pubbliche e private ed arricchendo la vita dell’individuo”. La conclusione era che “gli scienziati devono imparare a comunicare con il pubblico e a considerare questa attività un proprio dovere”.
Naturalmente l’impegno delle istituzioni scientifiche nel divulgare la scienza aveva radici più antiche – si pensi alla Royal Institution nell’Inghilterra dell’Ottocento o all’American Association for the Advancement of Science , che negli anni Sessanta prese addirittura in considerazione l’ipotesi di aprire uffici di consulenza a Hollywood e New York per incentivare quantità e qualità dei contenuti scientifici nelle produzioni televisive e cinematografiche.
Tuttavia è innegabile che il ‘movimento per il public understanding of science ’, nato sulla scia del rapporto della Royal Society abbia lasciato un segno che permane tutt’oggi a vari livelli: nello sforzo crescente delle istituzioni di ricerca di rendere visibili e accessibili i propri risultati, con lo sviluppo di uffici stampa e servizi di pubbliche relazioni; nella diffusione e nel finanziamento di programmi di coinvolgimento del pubblico da parte di istituzioni nazionali e internazionali; nella proliferazione di corsi e master di giornalismo scientifico; nell’esplicita affermazione che quella del rapporto con la società divenga una ‘terza missione’ per i ricercatori e le loro istituzioni, accanto alla produzione di conoscenza e alla formazione di nuovi studiosi.
Quale bilancio si può trarre, a oltre vent’anni di distanza? Indubbiamente una parte della diagnosi della Royal Society si è rivelata una facile profezia: le questioni critiche e i conflitti pubblici sulle questioni scientifico-tecnologiche sono cresciuti in questi anni in numero e intensità – dal nucleare alla mucca pazza, dagli Ogm alla ricerca su cellule staminali di embrioni.
Più problematica si è rivelata l’aspettativa che dosi massicce di comunicazione potessero sviluppare atteggiamenti favorevoli da parte dell’opinione pubblica. Alcuni studi, a dire il vero, hanno mostrato che anche le persone effettivamente più informate sul piano scientifico non risultano per questo meno critiche su temi quali le biotecnologie. E’ certamente un merito del public understanding aver stimolato gli studi sulla percezione pubblica della scienza. Grazie a rilevazioni sistematiche e su base comparata, abbiamo ormai a disposizione strumenti solidi. Sappiamo ad esempio che il livello di alfabetizzazione scientifica degli Europei è migliorato negli ultimi anni, che quello degli italiani è nella media europea (tre italiani su quattro identificano il DNA come caratteristico degli organismi viventi, ma quattro su dieci credono che il sole sia un pianeta). Sappiamo che scienza e scienziati godono di notevole fiducia e credibilità tra i nostri connazionali, ma che un italiano su quattro è qualificabile come ‘antiscientista disinformato’. Più diffuso è lo scetticismo su aspetti più specifici dell’organizzazione della ricerca: un numero non trascurabile di italiani condivide un giudizio critico sia sulla permeabilità della ricerca nei confronti degli interessi economici, sia sulla trasparenza delle procedure di reclutamento. Oltre uno su due (55%) e quasi due su tre (64%) si riconoscono, rispettivamente, in affermazioni piuttosto forti quali ‘ormai anche i ricercatori pensano solo a far soldi’ e ‘nel mondo della ricerca fa carriera solo chi è raccomandato’ (Observa, Gli Italiani e la Scienza, 2008). Abbiamo familiarizzato con un significativo paradosso secondo cui l’interesse per la scienza e la propensione a studiare scienze tra i ragazzi diminuisce all’aumentare del PIL nazionale: all’entusiasmo per la scienza dei giovani dei Paesi in via di sviluppo fa da contraltare il disincanto di quelli tecnologicamente più evoluti.
Anche per questi motivi l’originaria impostazione comunicativa ‘paternalistica’ è stata – quantomeno a parole – rinnegata dai suoi stessi proponenti. Le parole d’ordine sono passate da ‘divulgazione’ a ‘dialogo’, da ‘public understanding’ a ‘public engagement’ , da ‘scienza e società’, a ‘scienza nella società’.
Resta tuttavia dubbio che si sia davvero usciti da una fase ‘eroica’ del public understanding in cui tutto andava bene, purché fosse comunicazione e soprattutto fosse in nome della scienza. Uno degli aspetti più critici del settore è infatti la relativa assenza di indicatori di valutazione e di impatto . Se quella del rapporto con il pubblico è davvero una terza funzione per le istituzioni di ricerca, se assorbe risorse sempre più ingenti, perché non deve essere valutata come avviene per le attività di ricerca o di formazione? E se è venuta meno la missione pedagogica originaria, a quale nuova missione andranno adeguati simili indicatori?
Una lettura ottimista sostiene che in realtà il vero impatto del public understanding of science vada visto proprio sui ricercatori. Comunicare con il pubblico, spiegare le proprie ragioni e ascoltare quelle dei cittadini potrà non bastare a piegarne gli orientamenti, ma servirà comunque a coltivare un rapporto basato su trasparenza e fiducia reciproca.
Una lettura forse più pessimista enfatizza invece la crescente incorporazione di logiche tipiche della visibilità mediale da parte di ricercatori e istituzioni di ricerca. Uno studio in corso di pubblicazione su Science mette in luce come gli scienziati del settore biomedico dedichino sempre più tempo e attribuiscano sempre più importanza per le proprie carriere al rapporto con i mezzi di comunicazione di massa. L’ipotesi da non scartare, insomma, è che anni di sforzi comunicativi orientati abbiano reso la scienza sensibile alle ragioni dei media e alle pressioni sociali in senso lato, più di quanto abbiano reso media e cittadini più sensibili alle ragioni della scienza.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 ore, 6 luglio 2008.