In genere si suppone che esista una qualche relazione tra parole e pensieri, però la natura precisa di questa relazione ci è in larga misura ignota. Vi sono approcci diversi a questo problema, ma la strategia che io perseguo è studiare le creature che, pur comunicando tra loro in modo sofisticato, non hanno nulla d’analogo al linguaggio verbale: gli altri animali.
Che cosa sono capaci di fare? Ci sono limitazioni, e di che natura, su quel che si può pensare in assenza di linguaggio?
Sappiamo che gli animali privi di linguaggio fanno cose complicate. Un esempio riguarda il concetto di numero. Abbiamo sperimentato che i pulcini appena nati sanno fare aritmetica elementare. Se confiniamo un pulcino in una scatola trasparente, dalla quale vede sparire una pallina dietro un pannello e quattro palline dietro un secondo pannello, e poi spostiamo due palline da un pannello all’altro, il pulcino, soggetto all’imprinting anche nei riguardi di oggetti artificiali come le palline, una volta liberato andrà dove ci sono più palline. Riuscirà a comportarsi così anche dopo esperimenti ripetuti spostando un numero diverso di palline. Ciò significa che ci sono animali capaci di tenere in memoria e compiere semplici operazioni sul numero di oggetti, senza capacità linguistiche né parole per designare i numeri.
Un altro esempio riguarda l’utilizzo degli strumenti. La nostra specie li fabbrica e li usa, ma non è l’unica. Il corvo della Nuova Caledonia costruisce con foglie e bacchetti piccole lance e uncini per catturare le larve nei buchi degli alberi. Alcuni corvi, portati in laboratorio e muniti di un pezzo dritto di filo di ferro, realizzano spontaneamente un uncino con cui sollevare un secchiello pieno di vermi. Nessuna scimmia antropomorfa lo fa, e persino nella storia evolutiva umana questa capacità è sorta di recente.
Se il nostro “essere speciali” nel contare e usare strumenti è una questione di grado, che cosa ci offre la facoltà del linguaggio che non dà alle altre specie? Prima conviene riflettere sul problema inverso: sulla possibilità cioè che le parole e il linguaggio ci abbiano sottratto qualcosa. Può essere, infatti che il cervello sia un “gioco a somma zero”: dato che il numero di neuroni è limitato, se lo si impegna per sviluppare certe abilità, forse lo si sottrae allo sviluppo di altre abilità.
Un esempio che illustra bene questo punto riguarda ancora i numeri. Uno scienziato giapponese ha addestrato uno scimpanzé a premere sullo schermo di un calcolatore una serie di numeri in sequenza, distribuiti a caso. L’animale riesce senza difficoltà nel compito. Non sembra avere problemi nemmeno quando, dopo aver pigiato il primo numero, alcune mascherine coprono gli altri. Lo scimpanzé riesce a ricordare sulla base della propria memoria a breve termine la posizione dei numeri. Negli esseri umani, solo alcuni bimbi molto piccoli presentano una capacità simile, che però scompare con l’acquisizione delle abilità linguistiche. Forse la possibilità di svolgere il compito come lo scimpanzé è il prezzo da pagare per avere la parola.
In che cosa, dunque, il linguaggio ci rende speciali? Come noi, anche galline, piccioni e pesci sembrano capaci di risolvere i cosiddetti test di “inferenza transitiva” (se A è più alto di B, e B è più alto di C, allora A è più alto di C), forse perché queste capacità logiche sono importanti nei contesti sociali. Se in un pollaio giunge un individuo sconosciuto, che vince la lotta con il membro più forte, i membri deboli non si confronteranno con il nuovo arrivato, poiché ne deducono subito la propria inferiorità. Questa è quasi certamente la ragione per cui gli animali, non solo le galline, hanno queste capacità logiche sofisticate: perché servono in un contesto sociale.
Secondo me, quello che rende speciali gli esseri umani non è la capacità di risolvere problemi, ma la capacità di comunicare agli altri quello che abbiamo pensato. A questo serve il linguaggio. Un giorno arriva nella tribù un individuo nuovo, e io osservo le stesse cose che ha visto la gallina,ma non le voglio tenere per me, voglio dire a un mio parente o ad un mio amico di non combattere con il nuovo arrivato, perché le ha suonate al capotribù.
Il linguaggio ci offre la possibilità di condividere socialmente conoscenze come queste, esplicitando processi di pensiero per comunicarli agli altri e segnando un’enorme differenza nell’evoluzione della nostra specie. Molti strumenti che ci circondano, come i libri, le scuole e le biblioteche, non sarebbero possibili senza il linguaggio.
Questo è ciò che il linguaggio ci ha dato, al prezzo di qualcosa che forse ci ha tolto.
Ascolta il podcast dell’intervento di Giorgio Vallortigara, in occasione della rassegna Scienza e Società si incontrano nell’Architettura 2009.
Giorgio Vallortigara è professore ordinario di Neuroscienze e Cognizione Animale della Facoltà di Scienze Cognitive e dirige il Laboratorio di cognizione animale e neuroscienze del Centro Interdipartimentale Mente Cervello dell’Università di Trento. È “Professore Aggiunto” presso la School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England, in Australia. È autore di più di 150 articoli scientifici e di alcuni libri a carattere divulgativo. Fa parte dell’editorial board di riviste scientifiche internazionali “Animal Cognition” e “International Journal of Comparative Psychology”, è co-editor della rivista “Laterality”.