Pochissimi ne parlano ma tra maggio e giugno, in coincidenza con le dichiarazioni dei redditi, si consumerà una piccola ma significativa rivoluzione nei rapporti tra cittadini e istituzioni di ricerca: ad ogni contribuente sarà data la possibilità di destinare il cinque per mille dell’Irpef a un ente di ricerca o università da lui stesso scelto. Una cifra modesta per gran parte dei contribuenti. Tuttavia, il dato potenzialmente rivoluzionario non sta nell’importo.
Per la prima volta, la decisione su quali enti – e dunque, indirettamente, quali ricerche – finanziare si sposta, seppure per una quota ridotta, dalle sedi decisionali tradizionali (politici, ricercatori) agli stessi contribuenti. Naturalmente, in vari Paesi vi sono da tempo sgravi fiscali e disposizioni normative che consentono di fare la stessa cosa: una donazione o un contributo a un ente o a una fondazione di ricerca possono alleggerire il proprio carico fiscale. Tali opportunità riguardano però tradizionalmente grandi contribuenti e aziende, mentre ora è potenzialmente coinvolta la totalità dei contribuenti.
La questione sollecita immediatamente due riflessioni.
In primo luogo, è singolare che una simile innovazione sia avvenuta praticamente senza alcun significativo dibattito a livello pubblico, né tantomeno nel mondo della ricerca. Singolare soprattutto allorché si considera quali polemiche abbiano sovente accompagnato l’ingresso dei cittadini nelle scelte di politica della ricerca. Quanto spesso abbiamo sentito ripetere – soprattutto da politici e da esperti scientifici – che l’intromissione dei non esperti in simili scelte rappresenta un potenziale elemento di ‘distorsione’ e di ‘decisioni irrazionali’ (l’esempio più spesso citato è quello del referendum sul nucleare). Eppure, anche se la modalità decisionale è diversa e la scelta dei contribuenti avviene su un elenco predefinito dal Ministero, il principio è il medesimo in quanto fa dipendere la destinazione dei fondi di ricerca anche dalla scelta diretta dei cittadini. E’ possibile che l’assenza di dibattito sia stata dovuta, tra l’altro, alla percezione che tale scelta si eserciti su risorse aggiuntive per la ricerca.
In secondo luogo appare legittimo chiedersi se gli stessi enti di ricerca siano attrezzati per cogliere e gestire un simile cambiamento, per esempio sul piano della comunicazione. Se finora dovevano render conto della rilevanza dei propri progetti e risultati ad altri ricercatori e ai decisori politici, il cinque per mille introduce un ‘terzo incomodo’: i cittadini. E’ ai loro criteri di importanza e di rilevanza ed è ai loro ordini di priorità – presumibilmente assai diversi da quelli di esperti e decisori politici – che occorre fare appello per ottenerne la firma sui moduli fiscali. Servirà, probabilmente, una svolta concettuale e di professionalità che vada al di là della pur significativa valorizzazione della comunicazione pubblica che ha caratterizzato in questi anni la ricerca. Qui infatti non si chiede al cittadino di visitare una mostra o di ascoltare una conferenza scientifica (perlopiù a costo zero) ma di decidere se i soldi dati all’istituto di ricerca X siano meglio spesi di quelli dati all’istituto di ricerca Y o ad altre attività di utilità sociale.
Ai pessimisti potrebbe venire in mente una vignetta di Altan di qualche anno fa “A che punto è la ricerca? ‘Stiamo cercando di capire quali malattie vuole avere la gente’”. In ogni caso, d’ora in avanti sarà difficile per chiunque dire che i cittadini devono starsene fuori dai problemi della ricerca e lasciar decidere gli esperti.
L’articolo è stato pubblicato su La Stampa, lo scorso aprile.