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Il genere umano si è sempre interessato al cielo, perché guardarlo genera sensazioni di quiete e tranquillità. In passato, però, c’erano anche finalità legate alla vita quotidiana: costruire calendari per seguire i cicli naturali consentiva la sopravvivenza delle comunità. Oggi la tecnologia ci permette di osservare il cielo in modo nuovo, ma abbiamo due motivi diversi rispetto agli antichi per farlo:
1) comprendere come agisce la natura, in particolare come sono nati i corpi celesti, come funzionano, come si evolvono e come termineranno la loro esistenza;
2) usare il cielo come un laboratorio per capire meglio le leggi della natura, perché certi eventi che si svolgono tra i corpi celesti non sono riproducibili sulla Terra.
Dal cielo le informazioni ci arrivano soprattutto sotto forma d’onde elettromagnetiche (la luce), delle quali a occhio nudo percepiamo solo una parte. Paragonato alla musica, sarebbe come ascoltare una melodia con un filtro nelle orecchie che accetti solo alcune frequenze: difficilmente il contenuto della melodia sarà comprensibile. Allo stesso modo gli astronomi si sono comportati per necessità tecnologiche fino a cinquanta anni fa: potevano osservare solo una piccola porzione delle informazioni che fluivano attraverso il cielo, quelle che i loro occhi percepivano. Recentemente, però, si sono aperte nuove possibilità d’osservazione, grazie alla scoperta d’onde elettromagnetiche estese oltre il visibile: infrarossi, onde radio, raggi x, ultravioletti, raggi gamma. Così si sono rese disponibili nuove visioni del cosmo.
Il nostro occhio, per esempio, percepisce il Sole in un certo modo, ma se lo guardiamo in lunghezze d’onda diverse, ci appariranno visioni diverse. È lo stesso oggetto colto in “finestre” distinte dello spettro elettromagnetico. Costruendo un’immagine sommata di questi panorami del Sole, è stato possibile ricostruire il suo passato e prevedere il suo futuro. Anche l’aspetto delle galassie, come la nostra Via Lattea, appare differente, secondo la lunghezza d’onda in cui lo guardiamo: ci serve tutta la sequenza delle visioni per ricostruire la storia delle galassie.
Le onde elettromagnetiche ci trasmettono sensazioni visive: ma esistono anche onde sonore o acustiche nel cosmo? E gli astronomi le usano? Le onde sonore sono onde di densità, ossia deformazioni periodiche dello spazio prodotte da qualche sorgente, ad esempio dalla voce, che si propagano in qualunque fluido, come l’aria.
Tutti i corpi celesti sono sedi d’onde sonore, il cui studio non è possibile all’interno degli astri. Esse però arrivano in superficie producendo deformazioni che si possono esaminare, dandoci informazioni sull’interno. Nei corpi celesti si sviluppano sempre onde sonore, ma giunte in superficie non possono andare oltre, né pertanto arrivare fino a noi. Difatti, a differenza delle onde elettromagnetiche, che si espandono anche nel vuoto, le onde acustiche devono deformare un mezzo materiale per viaggiare. Purtroppo, fuori dell’atmosfera la densità è molto bassa, perciò non si possono produrre onde di densità.
Però non è sempre stato così. Fino a 300.000 anni dopo il Big Bang, il cosmo era più denso di adesso, perciò c’erano le condizioni perché le onde sonore giunte in superficie d’ipotetici corpi celesti (che ancora non esistevano) potessero propagarsi all’esterno. Fino ad allora, le onde sonore avevano deformato in modo non uniforme la superficie dell’universo, che è rimasta modificata per sempre. Oggi, tramite alcuni satelliti, possiamo rilevare le increspature sulla superficie e, studiando la propagazione delle onde sonore, possiamo risalire alla natura del materiale che le ha trasportate nei primi anni di vita dell’universo. Ma si può anche vedere cos’è accaduto dopo: dove la densità era più alta, la materia si è contratta originando le stelle e le galassie così come le osserviamo oggi. Quindi l’impronta delle onde sonore, che allora si trasferivano nel cosmo, ci dà le informazioni maggiori su come l’universo è nato.
Andrea Possenti è nato a Treviglio (Bg), si è laureato in Fisica a Milano e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Astronomia a Bologna. È ora astronomo all’INAF-Osservatorio di Cagliari. Con i colleghi italiani Marta Burgay e Nichi D’Amico e alcuni collaboratori internazionali ha scoperto la prima Pulsar Doppia, che è valsa al gruppo il Premio Cartesio 2005 dell’Unione Europea. Oltre ad un centinaio di pubblicazioni su riviste professionali, si è da tempo attivamente dedicato alla divulgazione astronomica, con più di 200 conferenze pubbliche e la redazione di due volumi (“Eclissi” edito da Mursia 1999, e “Comete: diario di viaggio”, edito da Mimesis nel 2002) dedicati ai fenomeni celesti più coinvolgenti.