Il recente caso di Piergiorgio Welby ha riportato al centro del dibattito pubblico il tema dell’eutanasia, sollevando controverse questioni di carattere morale, etico e giuridico. E’ giusto mantenere in vita una persona allo stato vegetativo che non abbia nessuna speranza di miglioramento? Chi deve decidere se continuare o interrompere le cure necessarie alla sua sopravvivenza?
In proposito le posizioni degli italiani appaiono divise, come rivela un’indagine dell’Osservatorio Scienza e Società del centro ricerche Observa – science in society.
Una prima questione riguarda l’ipotesi di porre fine all’esistenza di un malato cosciente ma senza prospettive di guarigione, che chiede espressamente di concludere la propria esistenza. Di fronte a questa situazione, quattro italiani su dieci ritengono che la persona debba essere tenuta in vita con tutti i mezzi possibili, il 30% è favorevole ad interrompere le cure che le permettono di rimanere in vita, mentre il 23% opterebbe per la somministrazione di un farmaco che porti ad una morte indolore.
Per quanto riguarda invece a chi spetta prendere la decisione il giudizio è molto netto: sette intervistati su dieci ritengono che dovrebbe essere la persona malata, il 15% il parente più prossimo e il 6,3% il medico curante.
E nel caso in cui la persona malata non sia più cosciente, cosa si dovrebbe fare? Di nuovo le posizioni non sono univoche. Buona parte degli intervistati si schiera a favore dell’opportunità di mantenere in vita a tutti i costi la persona (40,1%); poco meno di un terzo ritiene che si dovrebbero interrompere le cure (27%), il 21% dichiara la necessità di provocare la morte con un farmaco.
In entrambi i casi sono soprattutto i cattolici (42,8%) e le donne (43,4%) a sostenere la necessità di mantenere in vita con tutti i mezzi possibili la persona. Tuttavia tra chi professa la religione cattolica una quota non trascurabile, il 27%, si dice favorevole all’interruzione delle cure per porre fine alla sofferenza del malato, mentre un quinto è propenso al ricorso ad un farmaco.
Se il malato non è in grado di esprimere la propria volontà il problema di stabilire chi possa prendere una decisione in sua vece acquista particolare importanza. Il 58% si atterrebbe alla volontà espressa dal malato quando era ancora cosciente; aumenta in misura consistente l’attribuzione di responsabilità al parente più prossimo (28%), contro il 9% accordato al medico curante.
Ad ogni modo, di fronte alle sofferenze di un malato, e ai possibili rimedi per alleviarle, gli italiani si schierano per la maggior parte a favore dell’uso di sostanze che riducono l’intensità del dolore. Più della metà degli intervistati – in particolare nella fascia di età più giovane- ritiene che si debba usare la morfina (54%); tale consenso, tra l’altro, tende a crescere con l’aumentare dell’età: dal 30% tra i più giovani al 61% nella classe d’età 45-64. Di converso, i più giovani sottolineano l’importanza del sostegno psicologico all’ammalato grave in misura doppia rispetto a coloro che hanno più di quarantacinque anni.
Nel complesso, dunque, si osserva una divisione negli orientamenti dell’opinione pubblica di fronte a situazioni di grave malattia che preludono alla morte: da un lato, un’ampia parte degli Italiani preferisce garantire le cure che permettono di mantenere in vita il malato il più a lungo possibile, dall’altro una parte affatto trascurabile è favorevole a limitare l’accanimento terapeutico oppure a porre fine alle sofferenze del malato. La scelta decisiva di sospendere le cure è però da molti lasciata al singolo, nella convinzione che i legami sociali e familiari non possono prevalere sulla capacità di autodeterminazione individuale.
Commento e dati in pdf sono disponibili qui.
La rilevazione è stata condotta tramite interviste telefoniche con metodo CATI su un campione di 1029 casi, stratificato per genere, età e ripartizione geografica, rappresentativo della popolazione italiana con età uguale o superiore ai 15 anni.