Massimiano Bucchi su Corriere del Veneto, L’Editoriale del 20 settembre 2016.
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Il Web senza regole
Forse ci stiamo finalmente svegliando? Una serie di vicende recenti – la multa europea ad Apple, la protesta del governo norvegese per la censura di Facebook, perfino drammatici casi di cronaca come il suicidio della ragazza tormentata per un video in rete (tragica replica del caso di una ragazza padovana avvenuto due anni fa) – sembrano segnare l’inizio di una discontinuità nel nostro atteggiamento verso le tecnologie digitali e i colossi che le dominano.
Per anni, immersi nel liquido amniotico della connessione e condivisione continua, siamo vissuti in uno stato di incoscienza. Quando gli storici racconteranno il nostro tempo, spiegheranno che il vero capolavoro dei vari Google, Facebook e Apple non è stato la loro capacità di offrire prodotti e servizi di grande successo, ma la narrativa e la retorica che vi hanno costruito intorno. Convincendoci con lestezza e destrezza che poiché si trattava di tecnologie nuove, belle (anzi, cool) e (apparentemente) gratuite, ad esse non si applicavano le tradizionali regole della convivenza civile: pagare le tasse, rispettare la privacy e la libertà di espressione, retribuire il lavoro di artisti, musicisti e scrittori.
Anticaglie che per definizione non si potevano applicare al nuovo tecnologico che avanza: le tasse le paghi chi produce biscotti, non smartphone assemblati in Cina e fatturati in Irlanda; risponda di ciò che scrive chi firma e stampa libri e giornali, non chi favorisce (e lucra su) condivisione e circolazione di contenuti.
Così, tutta la nostra attenzione si è concentrata sul dato tecnologico, o al massimo imprenditoriale. Niente, o quasi, si è invece detto su come questi prodotti e servizi incidano sulla nostra vita quotidiana, su come ridefiniscano comportamenti e abitudini tutt’altro che nuovi (ascoltare musica, leggere notizie, diffondere pettegolezzi) ma tanto trasformati da risultarci incomprensibili e incontrollabili; o sul rischio di scambiare facilità d’uso con la comprensione delle conseguenze. Fino all’illusione più grande di tutte: quella che l’innovazione sia neutrale e come tale non possa e non debba essere regolamentata. Anzi, guai a chi pensa di regolamentarla, perché così si strangola lo sviluppo e si perdono posti di lavoro – altra favola: ogni innovazione da un lato crea, dall’altro distrugge, mercati e posti di lavoro (vedi Uber e Airbnb). Colpa dei colossi digitali? Figuriamoci, hanno fatto solo i propri interessi, ben spalleggiati dai loro governi.
Colossale sottovalutazione e ingenuità, piuttosto, da parte di tutti noi. A cominciare da governi nazionali ed istituzioni europee, per finire a mezzi di informazione e opinione pubblica. Possibile ad esempio che durante la recente visita di Zuckerberg in Italia nessuno abbia avuto il coraggio di fargli una domanda su privacy e uso di dati del miliardo e passa di utenti Facebook e Whatsapp? Di chiedergli come mai Facebook censuri i nudi di Helmut Newton o le storiche foto dei massacri in Vietnam, ma non le fanpage di malavitosi e (fino a poco fa) perfino la vendita di armi?
La soluzione naturalmente non è vietare, né chiudersi pregiudizialmente all’innovazione. È innegabile che a certe condizioni questi strumenti possano offrire opportunità. Ma per regolamentare bisogna prima comprendere. E per usare bene l’innovazione, qualunque innovazione, che sia una forchetta o un social network, ci vuole cultura. Quando arrivarono sul mercato le prime automobili nessuno si pose il problema della loro sicurezza. Ci vollero quasi cent’anni dalla prima vittima in un incidente d’auto perché la società capisse la portata di quell’innovazione introducendo le prime normative sulla sicurezza stradale.
Oggi (forse) stiamo cominciando finalmente a fare i conti con un cambiamento che ci ha spiazzato e travolto come un bolide. Speriamo che non ci vogliano altri cent’anni.