Un fantasma si aggira nei laboratori, nei corridoi dei congressi, nelle sale dei consigli di amministrazione di molte imprese avanzate: la sensazione che spesso la società “remi contro” la scienza e l’innovazione tecnologica. Opponendo loro, per bocca e per mezzo di media, organizzazioni non governative, newsgroup, passaparola e talora persino referendum, un ostruzionismo irrazionale e contro i suoi stessi interessi.
Nulla irrita e preoccupa di più l’esperto dei due pesi e delle due misure che vede usare di fronte a rischi ipotetici e indimostrati come quelli delle colture geneticamente modificate o delle radiofrequenze dei telefoni cellulari, o trascurabili rispetto ad altre opzioni come quelli degli inceneritori di rifiuti, rispetto a quelli ben più concreti dell’automobile o della qualità dell’aria all’interno delle abitazioni.
Come se la società si fosse improvvisamente irrigidita contro quegli stessi fattori di progresso (espressione quest’ultima ormai quasi politicamente scorretta) che hanno reso le nostre vite tanto più lunghe, sane e interessanti di quelle dei nostri bisnonni. Arrivando a chiedere limitazioni alla stessa libertà di ricerca.
In realtà, basterebbe guardare al passato per rendersi conto che di nuovo, sotto il sole, c’è ben poco. Non si contano le innovazioni che hanno richiesto generazioni prima di essere accettate. E’ successo persino al caffé e alla patata, alla lampadina e alla bicicletta. La nonna è sempre l’ultima a restare attaccata alle tecnologie di ieri, mentre i nipoti crescono usando quelle di domani.
Il problema è che la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica corrono ben più veloci dell’acquisizione delle conoscenze, dell’evoluzione della cultura popolare, del cambiamento di opinioni, valori e comportamenti. E chi vi ha investito non vuole aspettare trent’anni per vedere i primi ritorni. Il pomodoro giunto dal Sudamerica ha impiegato due secoli per arrivare in tavola, ma l’industria biotech si aspetta che quello transgenico ci arrivi dopo due anni.
Anche se ridiamo della nonna, è naturale che anche a noi i cambiamenti non piacciano più di tanto e ci voglia del tempo per integrare le novità in quello che già sappiamo o pensiamo, o in quello che siamo disposti a fare. Fanno fatica gli stessi scienziati. Come scrisse un celebre filosofo della scienza, perché una nuova teoria venga accettata bisogna spesso attendere la morte degli scienziati della generazione precedente.
Da quando esiste qualcosa che possiamo chiamare con questo nome, la comunicazione della scienza serve proprio a facilitare (e quindi ad accelerare) l’assimilazione delle novità, altrimenti troppo lenta. Il paragone non sembri irriverente, ma il Dialogo di Galileo aveva lo stesso scopo degli articoli di Scientific American o dei documentari scientifici della BBC. In altre parole, la comunicazione ha la funzione di aggiornare le rappresentazioni sociali della scienza e della tecnologia in circolazione, gettando dei ponti fra quello che si sa o si è disposti ad accettare, e il nuovo.
Poiché però scienza e tecnologia continuano a cambiare le carte in tavola, questa comunicazione è una fatica di Sisifo. Esattamente come quella del greco condannato dagli dei a spingere su per una montagna un macigno che all’avvicinarsi della cima rotolava giù, costringendolo a riportarlo su per l’eternità. Con un certo numero di aggravanti, peraltro.
Le rappresentazioni sociali della scienza sono complesse e difficili già da interpretare, e figuriamoci quindi da cambiare, perché hanno dimensioni culturali, psicologiche ed etiche, oltre che cognitive. Col tempo il compito si fa più gravoso, perché ci saranno sempre più nuove conoscenze e innovazioni tecnologiche. E tutto fa pensare che si moltiplicheranno le occasioni di scontro vero e proprio fra scienza e società, episodi che rischiano sempre di precipitare in spirali mediatiche perverse in cui salta ogni razionalità e la voce della scienza diventa solo una delle tante, non necessariamente la più forte o la più ascoltata. Chi non ricorda il circo televisivo e politico intorno al caso Di Bella?
Proprio la necessità di affrontare queste crisi ci indica tuttavia una strada percorribile.
Ricondurre alla ragionevolezza queste discussioni è così difficile essenzialmente per due motivi. Il primo è che i cittadini vengono messi di fronte a qualcosa di nuovo (e ovviamente delicato) che non riescono a capire o a valutare perché non hanno gli strumenti per farlo e lì per lì non ci sono il tempo e la serenità per acquisirli. Chi ha chiaro ad esempio perché singoli casi non hanno importanza per valutare una terapia, ma servono sperimentazioni cliniche rigorose? Il secondo motivo è che gli esperti o le istituzioni scientifiche che prendono la parola sono agli occhi del pubblico degli illustri sconosciuti. E’ comprensibile che l’uomo della strada si chieda chi sia l’oncologo che parla in televisione, e perché dovrebbe fidarsi più di lui che del simpatico vecchietto che giura di saper curare il cancro.
A ben poco serve infatti la comunicazione “di crisi”, anche se affidata a un mago delle pubbliche relazioni, se non c’è stata comunicazione anche prima, “in tempo di pace”. Una comunicazione fatta di presenza periodica sui media, servizi informativi, mostre, formazione nelle scuole e quant’altro può servire a tenere i cittadini ragionevolmente aggiornati, a farsi conoscere e apprezzare, a creare e mantenere aperti dei canali di comunicazione, a conquistare la fiducia del pubblico come delle istituzioni. Si tratta anche di un ottimo modo per imparare quest’arte non facile.
La forza contrattuale dei National Institutes of Health americani, ad esempio, è dovuta anche ai chiari, completi e affidabili servizi informativi che essi offrono sul Web. Solo su questa base hanno potuto contestare il taglio dei loro finanziamenti e riuscire alla fine a farseli aumentare. Il telescopio spaziale Hubble sarà tenuto in vita perché astrofili e comuni cittadini sono affascinati dalle sue foto e dalle sue scoperte, che da 15 anni uno staff di 40 persone si preoccupa di diffondere in tutto il mondo. E gli esempi potrebbero continuare. Non a caso, la comunicazione già assorbe in media l’1% del budget dei grandi istituti di ricerca internazionali, e il 2% di quello della NASA.
La sostenibilità dell’impresa scientifica e dei suoi ritmi di innovazione potrà essere assicurata solo se essa saprà comunicare con la società molto di più, in modo molto più efficace e con molta più continuità. A tutti i livelli, nel settore pubblico come in quello privato. Non diversamente da come hanno da tempo imparato a fare altri soggetti, dalle grandi imprese alla Chiesa cattolica, dalle rappresentanze sociali all’Arma dei Carabinieri.
Per il mondo della ricerca sarà una “fatica” (in termini di impegno, tempo, risorse, creatività) che come quella di Sisifo è destinata a non finire mai. Perché il nuovo continuerà a rendere inutile ciò che è stato appena conquistato, costringendolo a ricominciare daccapo. Ma non potrà fare a meno di farlo.
*Giovanni Carrada è autore di “Comunicare la Scienza, kit di sopravvivenza per ricercatori”, Sironi editore, 2005.
Il volume è scaricabile all’indirizzo:
http://www.mestierediscrivere.com/testi/comunicarelascienza.htm