Oggi il termine bioeconomía è sulla bocca di tutti, non solo degli addetti ai lavori. Quando io e Joanna pensammo di dedicarci allo studio della bioeconomía, ormai quasi dieci anni fa, questa era soltanto l’ultima delle grandi proposte di policy dell’OCSE, ma ne intuimmo subito la portata. Da allora si è scritto molto sulla bioeconomía, e oggi tutti i paesi dell’OCSE hanno una strategia di crescita e sviluppo legata alla bioeconomía.
Non mancano certo definizioni di questo concetto. Da qui, parafrasando Pirandello, mio illustre conterraneo, nasce il titolo di questa presentazione: “Una, nessuna e centomila”. Dal nostro punto di vista, il termine è elusivo, ambiguo. Fa riferimento alla relazione che esiste tra la vita, bio, e l’economia, ma non chiarisce i termini di questa relazione. Il termine cattura la relazione di dipendenza della nostra economia dalla capacità della vita di generarsi e rigenerarsi ma questa non è una novità. Da sempre l’uomo ha dovuto inventarsi nuove maniere di ottenere il proprio sostentamento ponendosi in relazione con altre forme di vita. Però la bioeconomía sembra descrivere qualcosa di diverso, di più complesso, e direi anche di più inquietante. Per questo, non nascondiamo il nostro disagio verso questo termine. Lo usiamo, ma ne prendiamo le distanze.
Non a caso, un primo obiettivo del libro è chiarire, fare luce, sulle diverse accezioni di bioeconomía. Ne identifichiamo tre.
La prima definisce la bioeconomía in relazione alle biotecnologie. Ne enfatizza il ruolo rispetto alla crescita economica, e fa perno sui grandi progressi dell’ingegneria genetica. Grazie alle biotecnologie, la bioeconomía si presenta come una rivoluzione capace di risolvere con successo le grandi sfide dell’umanità, la crescita economica, la scarsità delle risorse, le necessità alimentari, le malattie incurabili e via dicendo. E tuttavia, questa visione tende a sminuire i rischi connessi alle nuove tecnologie, e a ridurre la definizione di problemi complessi a semplici sfide che una tecnologia può risolvere. E non mette in conto che rischi e benefici non sono ugualmente distribuiti nella popolazione.
La seconda accezione definisce la bioeconomía in relazione alle biomasse. Ne enfatizza la capacità di sfruttare in maniera sostenibile le biomasse, soprattutto rispetto alla produzione di energia, alla dipendenza dal carbone e alla riduzione dell’inquinamento. Ma anche questa visione della bioeconomía ha limiti importanti: confonde, ad esempio, rinnovabile con sostenibile, non mette in discussione l’attuale modello di sviluppo e trascura, o direttamente si oppone, ai modelli alternativi di uso del territorio e delle biomasse generati dalle conoscenze e dalle esperienze delle comunità locali. Dunque, questa visione della bioeconomía favorisce la concentrazione delle attività economiche nelle mani di pochi attori multinazionali e ignora la relazione tra uomo, società e ambiente.
Nonostante le differenze, entrambe le visioni, coerentemente con la matrice ideologica neoliberale della quale si nutrono, propongono politiche pubbliche molto simili.
- Suggeriscono l’aumento di finanziamento pubblico alle attività di ricerca e sviluppo, ma soprattutto a fini commerciali.
- Propongono un ricorso massiccio alle partnership pubblico-privato, delle cui implicazioni parlano ampiamente Luca Marelli e Giuseppe Testa nel loro capitolo.
- Consigliano una deregulation, o meglio una re-regulation, a tutela degli interessi commerciali delle imprese private coinvolte
- Promuovono una gestione dell’impatto ambientale basata sullo scambio mercantile dei diritti d’inquinamento.
- E raccomandano continuamente campagne di sensibilizzazione dei cittadini (nel loro ruolo di consumatori) per ridurne l’ostilità verso le nuove tecnologie. I cittadini sono spesso rappresentati, infatti, come un ostacolo alla scienza, e non come stakeholder rilevanti nel processo di ricerca e sviluppo.
A parte il grave divorzio dalle economie locali, e la confusione tra rinnovabile e sostenibile, queste due visioni della bioeconomía sostengono l’idea di una scienza per l’aumento della crescita e della competitività. La scienza si riduce così allo sviluppo di nuovi prodotti. Infine, alimentano un riduzionismo scientifico preoccupante, che riduce la soluzione di problemi sociali molto complessi a rivoluzioni tecnologiche sempre dietro l’angolo. Eppure qualsiasi scienziato sa che una soluzione è buona solo tanto quanto la definizione del problema che pretende risolvere.
Parlavo di tre accezioni. La terza è prettamente accademica, e gira intorno alla relazione tra scienza, tecnologia e capitalismo. In parte si domanda: come si genera, distribuisce e appropria il beneficio economico nella bioeconomía? Con quali conseguenze? Alcuni suggeriscono che l’inserimento delle capacità generative e rigenerative degli organismi viventi all’interno del sistema capitalista sia l’origine del beneficio. Altri piuttosto enfatizzano il lavoro clinico dei corpi, soprattutto di quello femminile, la capacità di mettere questi corpi al lavoro per aumentare l’accumulazione di capitale. Altri ancora, guardano alla speculazione, ai regimi di promesse e attese e infine altri sostengono che siano i nuovi regimi di proprietà intellettuale a generare i benefici economici, alla stessa stregua delle enclosures di terra che precedettero la rivoluzione industriale in Gran Bretagna. Di questo dibattito concreto, si occupa la seconda sezione del libro.
Sempre all’interno di questa terza visione della bioeconomía, altri autori si sono interrogati su che tipo di nuove soggettività esistano nella bioeconomía. Vari i concetti proposti, dalla cittadinanza genetica alla biosocialità. Da questa prospettiva, la bioeconomía emerge come un nuovo spazio sociale, politico e tecnologico che genera nuove forme di intendere se stessi e la relazione con gli altri, con lo stato, con la società civile, ma anche con la famiglia. Nuove forme d’individualismo, di mobilitazione, di diritti e d’interazioni costituiscono un panorama complesso e affascinante che la bioeconomía contribuisce a creare e ne è a sua volta influenzata.